Schizofrenia
ridefinita dal trascrittoma del caudato
GIOVANNI ROSSI
NOTE E
NOTIZIE - Anno XIX – 12 novembre 2022.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
L’eziopatogenesi
neuroevolutiva della schizofrenia, desunta dagli studi genetici e dall’analisi
dei difetti morfo-funzionali delle reti cerebrali, accosta in termini
neuropatologici questa psicosi dell’adulto, considerata la forma più grave di
malattia mentale dalla psichiatria classica, ai disturbi dello spettro dell’autismo
(ASD). Ma tale accostamento, sebbene corretto in teoria, non aiuta a
comprendere un’espressione clinica del tutto differente e, soprattutto, un’evoluzione
del tutto opposta: i bambini affetti da ASD presentano ritardo dello sviluppo psico-evolutivo
marcato e limiti cognitivi che, nella massima parte dei casi, compromette una
scolarizzazione normale; l’anamnesi dei futuri schizofrenici riporta in genere
intelligenza normale in età scolare e il frequente ottenimento di titoli di
studio superiori o universitari; crescendo, i bambini affetti da ASD, con l’aiuto
di opportuni trattamenti, migliora abilità e prestazioni, al contrario, in età
adolescenziale o adulta gli schizofrenici hanno in genere l’esordio psicotico
con deliri, allucinazioni e progressivo peggioramento delle abilità cognitive.
A causa dell’eterogeneità
neuropatologica all’interno di ciascuna di queste due categorie nosografiche concepite
su base clinica[1]
non è possibile generalizzare, tuttavia nella maggior parte dei disturbi neuroevolutivi
e pervasivi dello sviluppo, come quelli dello spettro dell’autismo, l’elemento
più evidente è l’alterazione morfo-funzionale dello sviluppo della corteccia
cerebrale. Al contrario, le alterazioni morfologiche della corteccia negli
schizofrenici, quando rilevabili, sono minime, e le differenze apprezzabili
vanno dalla connettività funzionale dei sistemi alle alterazioni di livello sinaptico.
Soprattutto, molti studi sulla neuropatologia della schizofrenia hanno rilevato
importanti differenze nell’area dello striato con la fisiologia del cervello
non affetto da disturbi. Sembrano implicate le connessioni di neuroni del
nucleo caudato, della parte esterna del nucleo lenticolare (putamen) e di altri
aggregati neuronici circostanti con numerosi nuclei e aree incluse quelle
corticali.
La maggior
parte degli studi sull’espressione genica nel cervello di persone
affette da schizofrenia è stata focalizzata su regioni della corteccia
cerebrale, soprattutto per l’analogia ricorrente in neurogenetica di cui ho
appena parlato, ma sappiamo che i nuclei sottocorticali, e particolarmente
quelli dello striato, sono in modo preminente interessati dai processi
patologici e che i farmaci attualmente più prescritti per il trattamento della
schizofrenia hanno quale sede d’elezione la densa innervazione dopaminergica
dei nuclei della base encefalica. Per queste ragioni, Kynon J. M. Benjamin e
numerosi colleghi hanno condotto un’analisi estesa e dettagliata del panorama
genetico e trascrizionale della schizofrenia nel nucleo caudato del
corpo striato di un campione vasto e significativo, identificando nuovi geni di
rischio e rilevando elementi di notevole interesse clinico e per il prosieguo
degli studi.
(Benjamin
K. J. M. et al., Analysis of the caudate nucleus transcriptome in
individuals with schizophrenia highlights effects of antipsychotics and new
risk genes. Nature Neuroscience
– 25, 1559-1568, 2022).
La provenienza degli autori è la seguente: Lieber
Institute for Brain Development, Baltimore, MD (USA); Department of Psychiatry
& Behavioral Sciences, Johns Hopkins University School of Medicine,
Baltimore, MD (USA); Department of Neurology, Johns Hopkins University School
of Medicine, Baltimore, MD (USA); Department of Neuroscience, Johns Hopkins
University School of Medicine, Baltimore, MD (USA); McKusick-Nathans
Institute of Genetic Medicine, Johns Hopkins University School of Medicine,
Baltimore, MD (USA); Department of Mental Health, and Department of
Biostatistics, Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, Baltimore, MD
(USA); Center for computational Biology, Johns Hopkins University, Baltimore,
MD (USA); Center for Mathematics, computation and Cognition, Federal University
of ABC, Santo André (Brasile); Institute of
Mathematics and Statistics, University of Sao Paulo, Sao Paulo (Brasile).
Per introdurre il lettore non psichiatra
al problema della neuropatologia della schizofrenia, propongo qui di seguito alcuni
cenni storici e nozioni salienti tratte da trattazioni e recensioni recenti,
con qualche spunto di aggiornamento:
“La schizofrenia, che interessa l’1% della popolazione
mondiale, costituendo una delle maggiori cause di disabilità mentale, è la più
grave delle alterazioni psichiche che accompagnano l’intera vita di un paziente
psichiatrico, dall’esordio in età giovanile o all’inizio dell’età adulta fino
alla morte, di dieci anni più precoce della media nella popolazione generale. La
concettualizzazione di questo disturbo come malattia delle mente si deve al grande
nosografista tedesco Emil Kraepelin che, prendendo le mosse dal caso di uno
studente brillante diventato inabile per i compiti cognitivi più semplici dopo la
comparsa dei sintomi, identificò un piccolo gruppo di pazienti con un simile
decorso caratterizzato dalla perdita dell’intelligenza e, per questo elemento
che gli parve caratterizzante, propose la definizione diagnostica di demenza
praecox.
Era dunque ben presente l’aspetto relativo al limite
cognitivo, poi per decenni trascurato, soprattutto per l’influenza delle teorie
psicodinamiche sulla genesi del disturbo, che attribuivano a conflitti inconsci
lo sviluppo di un funzionamento mentale aberrante e non all’alterazione del
fondamento neurobiologico cerebrale, necessario anche per i più elementari
processi di estrazione di significato dai messaggi verbali, oltre che per
induzione, deduzione, riconoscimento di nessi di causalità e vincoli condizionali.
Lo stesso Eugen Bleuler[2], che introdusse il termine “schizofrenia”
per indicare la frequente scissione (schizo-) nello psichismo e, in
particolare, la separazione del tono affettivo ed emotivo dalla cognizione espressa
nella comunicazione, aveva ben presente il difetto intellettivo che peggiorava
col progredire della malattia.
A quell’epoca, l’opinione degli psichiatri era
concorde nel ritenere questo quadro psicopatologico la conseguenza di una malattia
del cervello con una forte base genetica, e caratterizzata da un processo
patologico che si supponeva diffuso nel parenchima cerebrale, con particolare
compromissione della corteccia, ritenuta la base dei processi intellettivi. L’unica
possibilità esistente a quel tempo di studio del cervello consisteva nell’osservazione
necroscopica e nel prelievo autoptico di campioni di tessuto cerebrale, per lo
studio istologico.
Gli stessi padri fondatori della neuropatologia, Nissl,
Alzheimer e Spielmeyer, condussero ricerche istologiche post-mortem sul
cervello di pazienti schizofrenici, descrivendo apparenti alterazioni che si
rivelarono incostanti e non caratterizzanti[3]. In particolare, nel 1897 Alzheimer
segnalò una scomparsa locale di cellule gangliari negli strati esterni della
corteccia cerebrale; Klippel e Lhermitte (1906) descrissero zone di
demielinizzazione focale, il cui reale valore di reperto istopatologico fu
contestato, molto tempo dopo, da Adolf Meyer e poi da Wolf e Cowen. Anche
Buscaino in Italia (1921), capostipite di una famiglia di neurologi illustri, compì
studi neuropatologici sulla struttura del cervello schizofrenico, descrivendo
formazioni a grappolo, che si rivelarono poi artefatti di preparazione del tessuto.
Josephy (1930) descrisse una sclerosi cellulare e una degenerazione grassa
degli strati corticali, che non trovarono riscontro in altri studi. Bruetsch,
nel 1940, credette addirittura di aver rinvenuto dei focolai reumatici nell’encefalo
psicotico; sicuro della bontà e significatività del reperto, postulò un ruolo
eziologico per la febbre reumatica.
Nel 1952 Winkelman riscontrò nel cervello schizofrenico
una perdita diffusa di neuroni, ma furono sollevati dubbi circa la
significatività del reperto che si ritenne potesse essere stato generato dalle
procedure istologiche impiegate. Allora, nel 1954, Cécilie e Oskar Vogt[4], per superare questo problema, allestirono
uno studio che prevedeva un’accurata indagine seriale degli emisferi cerebrali
mediante sezioni sottili dello spessore di 8 μ in uno studio controllato,
in cui i reperti istologici dei cervelli dei pazienti erano comparati con
identiche sezioni del cervello di persone non affette da psicopatologia e
decedute per cause non cerebrali alla stessa età. I Vogt trovarono in tutti i cervelli
schizofrenici alterazioni assenti nei cervelli sani, anche se la
localizzazione, l’aspetto istologico e la densità variavano da un caso all’altro.
I tre reperti principali dei Vogt furono cellule colliquanti (Schwundzellen),
degenerazione vacuolare e liposclerosi.
Negli ultimi decenni, dopo oltre cinquanta anni
durante i quali la concezione neuropatologica della schizofrenia è stata abbandonata
in luogo di teorie eziologiche psicoanalitiche, relazionali e comportamentali,
si è tornati su più solide basi, fornite dalle metodiche di neuroimmagine,
dalla nuova genetica e dalle scoperte di neurobiologia molecolare e
neurochimica, a concepire le psicosi schizofreniche come conseguenza di alterazioni
del cervello[5]. Dalle differenze nel metabolismo
cerebrale, nell’espressione dei recettori, nelle dinamiche sinaptiche, negli
equilibri fra sistemi neuronici, nelle funzioni degli astrociti, fino a quelle emerse
dallo studio delle connessioni secondo i metodi del campo specializzato della
connettomica, si dispone di un’imponente raccolta di dati che individua le basi
cerebrali di una fisiopatologia, che non potrebbe essere spiegata nei termini
obsoleti della ‘reazione maggiore’, contrapposta alla ‘reazione minore’
costituita dai disturbi d’ansia”[6].
In passato, insieme col nostro presidente, ho affrontato
il problema allora emergente dell’alterazione della funzione talamica nella schizofrenia[7]/[8].
A proposito dell’aver a lungo trascurato
in psichiatria i sintomi cognitivi della schizofrenia, che poi hanno indicato importanti
vie alla ricerca delle basi neuropatologiche, l’anno scorso scrivevo:
“La cultura che voleva caratterizzare
anche la distinzione fra la neurologia, come la branca medica che si occupa di
ictus, epilessie, tumori, traumi cerebrali, e così via, e la psichiatria, che
si occupa di ansia, fobie, attacchi di panico, depressione e disturbi con
deliri e allucinazioni, sollecitava l’attenzione sui sintomi “propriamente
psichiatrici” della schizofrenia, perché non si cadesse nell’errore di considerarla
una “demenza precoce” come era accaduto nell’Ottocento. Probabilmente, questa
enfasi eccessiva ha portato a trascurare per molto tempo la considerazione e lo
studio sistematico dell’indebolimento cognitivo”[9].
In realtà, nella clinica psichiatrica del
disturbo schizofrenico si distinguono sintomi
positivi, quali deliri e allucinazioni, sintomi
negativi, come l’anaffettività e il negativismo, e sintomi cognitivi, quali disorganizzazione del pensiero, linguaggio
soggettivo o inappropriato, deficit di attenzione e memoria, senza contare le
frequenti stereotipie di moto.
Per introdurre alle interpretazioni neuroevolutive dei
sintomi della schizofrenia correntemente adottate dagli psichiatri, mi rifaccio
a un mio articolo del 20 marzo 2021[10]:
“Due anni fa ho ricordato un modello neuroevolutivo
della schizofrenia[11] attualmente oggetto di insegnamento
in molte facoltà mediche di tutto il mondo e proposto per la prima volta da Keshavan
nel 1999: durante l’embriogenesi noxae
evolutive portano alla displasia delle strutture costituenti alcune specifiche
reti neuroniche, causando in tal modo i segni premorbosi cognitivi e
psicosociali; durante l’adolescenza, un’eccessiva eliminazione di sinapsi
determina un’iperattività dopaminergica fasica e precipita la psicosi. Keshavan
nota che, dopo la manifestazione clinica della malattia, le alterazioni
neurochimiche possono condurre a processi neurodegenerativi.
Il motivo del successo di questo modello è dato dal ‘sostegno’
ricevuto da numerose evidenze sperimentali. In realtà, si tratta di una
ricostruzione ragionevole e coerente con i dati dai quali è stata desunta, e
nulla esclude che sia corretta; tuttavia rimane troppo generica rispetto all’esigenza
di capire perché e come le ‘noxae’ causino una displasia responsabile
di quei sintomi precoci e perché si determini una perdita di sinapsi che causa
iperfunzione dopaminergica[12]”[13]/[14].
Dopo questa lunga
parentesi di introduzione e aggiornamento, torniamo finalmente allo studio di Kynon J. M. Benjamin e colleghi.
Il campione
era complessivamente costituito da 443 individui, dei quali è stato studiato il
cervello mediante prelievo di campioni di tessuto nervoso post-mortem dal
nucleo caudato. Dei 443, 154 erano stati pazienti diagnosticati di schizofrenia
secondo i criteri diagnostici correnti; 245, apparentemente privi in vita di
disturbi mentali, sono stati considerati normotipici e assunti come classe di “controllo”;
gli ultimi 44 erano costituiti da pazienti che in vita avevano ricevuto diagnosi
di disturbo bipolare. 210 individui del campione avevano presumibili antenati
africani e 233 avevano presumibili antenati europei.
Il lavoro si è
basato prevalentemente sull’integrazione dei dati emergenti con questi tre
metodi: 1) analisi dei loci di tratti quantitativi[15], 2)
randomizzazione mendeliana con il più recente studio genetico di associazione
esteso all’intero genoma (GWAS), 3) studio di associazione esteso a tutto il trascrittoma
con analisi dell’espressione differenziale.
In tal modo i
ricercatori hanno identificato molti geni associati al rischio di schizofrenia,
inclusa la potenziale isoforma corta del recettore D2 della dopamina.
È emerso che i
farmaci antipsicotici hanno un’influenza marcata ed estesa sull’espressione
genica del caudato. Un elemento di sicura importanza per la clinica, in quanto
dosi anche massicce di questi farmaci per trattamenti cronici sono prescritte
senza tener conto di modificare nei propri pazienti l’espressione genica dei
neuroni di un nucleo chiave per molti processi cerebrali e mentali.
I ricercatori
hanno ricostruito le reti di espressione genica del nucleo caudato,
evidenziando le interazioni implicanti un aumentato rischio di schizofrenia.
Naturalmente per il dettaglio di queste reti – come per l’indicazione specifica
dei geni di rischio per la schizofrenia – si rinvia alla lettura del testo
integrale dell’articolo originale.
Tutto quanto
emerso da questo studio costituisce un’importante risorsa da impiegare per la
ricerca sull’eziopatogenesi della schizofrenia e fornisce nuovi elementi sui
meccanismi del rischio, oltre a indicare nuovi potenziali bersagli per l’azione
terapeutica.
L’autore della nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle
recensioni di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito
(utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-12 novembre
2022
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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International
Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484,
come organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1]
La stessa forma clinica in
psichiatria come in neuropediatria può essere causata da noxae
differenti, che possono giungere a produrre gli stessi sintomi attraverso
processi differenti che possono poi convergere nel tipo di difetto neurofunzionale
che causano.
[2] Sulla storia delle origini della
diagnosi di schizofrenia e sull’evoluzione del concetto in psicopatologia vi sono
numerosi riferimenti negli scritti pubblicati nelle “Note e Notizie”; nella sezione
“In Corso” sotto il titolo “La concezione dei disturbi mentali nella storia” si
può leggere una cronologia che, in brevissime sintesi concettuali, elenca l’evoluzione
che si è avuta nel concetto di malattia mentale dalle prime tracce scritte, risalenti
al 3400 a.C., fino ai giorni nostri.
[3] Le nozioni storiche riportate di
seguito sono tratte da una relazione del nostro presidente; per le indicazioni
bibliografiche complete si veda in Silvano Arieti, Interpretazione
della Schizofrenia, in 2 voll., Feltrinelli, Milano 1978.
[4] Ai coniugi Vogt è intitolato un
istituto di ricerca nel quale è esposta un’interessante collezione di cervelli.
Oskar Vogt divenne celebre per lo studio del cervello di Lenin, nel quale
rilevò cellule piramidali giganti della corteccia di dimensioni notevolmente
superiori alla media.
[5] Sicuramente una parte non
trascurabile in questa evoluzione l’hanno avuta i numerosi istituti di ricerca
che hanno dedicato le proprie attività alla ricerca di correlati neurobiologici
dei disturbi mentali e le riviste, come Molecular Psychiatry, che hanno
consentito la diffusione della conoscenza di risultati che hanno modificato dei
punti di vista che resistevano da decenni.
[6] Note e Notizie 16-11-19
Trattamento cognitivo della schizofrenia. Si veda anche: Note e Notizie 07-12-19
Differenze in S100b tra persone affette da schizofrenia. E anche: Note e
Notizie 28-05-22 Talamo in adolescenza e patogenesi della schizofrenia.
[7] Note e Notizie 17-03-21
Alterata funzione del talamo nella schizofrenia.
[8] Note e Notizie 03-07-21 Talamo
anteriore nei difetti cognitivi di autismo e schizofrenia.
[9] Note e Notizie 27-02-21 Il
deficit cognitivo della schizofrenia è legato alla disbindina. Si veda
anche lo studio maggiore sui rapporti fra geni associati alla schizofrenia e
volume delle aree cerebrali sottocorticali: Note e Notizie 20-02-16 Influenze genetiche su schizofrenia e volume
sottocorticale. Per i rapporti con la morfologia si veda anche: Note e Notizie 21-11-15 Nella schizofrenia
la normale asimmetria emisferica è ridotta e alterata e Note e Notizie 14-02-15 Segni di schizofrenia che precedono i sintomi
per una diagnosi precoce.
[10] Note e Notizie 20-03-21
Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo. Per questa patogenesi
si legga il testo integrale dell’articolo.
[11] Note e Notizie 16-02-19 Nella
schizofrenia la microglia riduce le sinapsi.
[12] È evidente la costruzione
deduttiva da dati e inferenze precedenti. Quando è stato proposto il modello, il
campo di studi della fisiopatologia della schizofrenia era ancora dominato dall’ipotesi
dell’iperfunzione dopaminergica, desunta dall’azione anti-dopaminergica di fenotiazinici,
butirrofenonici e altri neurolettici di prima generazione efficaci nel ridurre
deliri e allucinazioni degli schizofrenici. Negli ultimi venti anni si è
consolidata l’evidenza della partecipazione di tutti i sistemi trasmettitoriali
alla fisiopatologia, con una prevalenza di interesse anche farmacologico per i
sistemi neuronici a segnalazione glutammatergica.
[13] Note e Notizie 20-03-21 Patogenesi
della schizofrenia da splicing alternativo.
[14] Si veda anche: Note e Notizie
28-05-22 Talamo in adolescenza e patogenesi della schizofrenia.
[15] Si usa per caratterizzare l’architettura genetica di un
tipo di tratto.